Osservazioni su alcuni aspetti di fondo dell’assetto culturale su cui si fondano i progetti LGBT.
Un’analisi a cura del Professore Furio Pesci.

l’analisi dei progetti presentati dalle associazioni LGBT che, soprattutto negli ultimi due anni, sono entrate nelle scuole principalmente per svolgere attività variamente finalizzate a “contrastare il bullismo omofobico”, mostra l’influsso che ha su questi progetti un duplice orientamento culturale che sembra essere stato fatto proprio dallo stesso Ufficio UNAR senza alcuna giustificazione sufficiente. Il predetto Ufficio, infatti, ha affidato all’Istituto “Beck” di Roma la redazione di una serie di
materiali informativi e didattici per insegnanti che è fortemente influenzata dal paradigma cognitivo – comportamentale utilizzato e propagandato dall’Istituto stesso. L’indirizzo cognitivo-comportamentale è senza dubbio uno dei principali in ambito psicoterapeutico e merita ogni rispetto sul piano scientifico, ma non si capisce il motivo che ha spinto l’Ufficio UNAR a prediligerlo e,soprattutto, ad improntare i programmi di contrasto all’omofobia su quella base. Erano possibili senz’altro opzioni numerose e diverse, e, d’altra parte, è raro rinvenire precedenti di articolazioni dell’amministrazione pubblica che abbiano fatto proprio uno specifico indirizzo culturale e scientifico nelle loro attività. Queste considerazioni critiche sono determinate da due esigenze: da un lato, quella di comprendere le motivazioni che stanno alla base della scelta compiuta, ancora oggi, almeno a chi scrive, sconosciute; dall’altro, quella di segnalare alcuni aspetti critici nella scelta effettuata.
A questo riguardo si deve ricordare che la concezione cognitivo-comportamentale dell’essere umano tende a privilegiarne il carattere di sistema cognitivo complesso e le problematiche riguardanti l’elaborazione delle informazioni rispetto ad altri fenomeni caratteristici della vita mentale e dell’agire umano. Queste caratteristiche dell’approccio cognitivo-omportamentale si ritrovano in maniera rilevante nel frasario dei progetti e, presumibilmente, anche nelle attività concrete da svolgere con bambini e adolescenti. Anche se, indubbiamente, l’approccio cognitivo- comportamentale è, in ambito psicologico e psicoterapeutico, quello che meglio può adattarsi alla logica rivendicativa delle organizzazioni LGBT, come la stessa storia recente delle discipline psicologiche dimostra, sembra discutibile, tanto sul piano scientifico, quanto su quello delle buone pratiche, che l’azione delle agenzie pubbliche privilegi un indirizzo rispetto ad altri in ambito educativo.
È discutibile anche il modo in cui l’approccio cognitivo-comportamentale è stato applicato a contesti come quello della scuola e della didattica. La sua introduzione rischia di ridursi, nella pratica, e in mano ad operatori di cui non sono conosciute pienamente la competenza e la professionalità (e rispetto a cui lo stesso Istituto Beck non ha assunto alcuna responsabilità, come ha specificato in una nota all’indomani delle polemiche dell’anno scorso), ad una sorta di didattica “herbartiana”, fatta di lezioni oggettive, discorsi più o meno strutturati, uso di strumenti multimediali, incontri con “esperti” e sedicenti tali, ecc.
Non sembra che sia stata rispettata nemmeno la condizione essenziale dello stesso approccio cognitivo-comportamentale, vale a dire la motivazione dello studente ad affrontare i temi trattati. Le esperienze documentate mostrano che le stesse iniziative di contrasto al bullismo omofobico sono state introdotte nell’orario scolastico senza alcuna analisi dei fabbisogni formativi specifici e in forma obbligatoria per classi intere in orari predefiniti. Queste prassi, forse generate dalla situazione
oggettiva e dalla struttura organizzativa, forse imposta dalle stesse o rganizzazioni proponenti, specialmente laddove il dialogo e il confronto d’idee sono stati impediti, otterrà risultati opposti a quelli desiderati. Questa affermazione è volta a riaffermare che gli scriventi sono loro stessi in prima linea nella lotta contro ogni discriminazione e non intendono accettare che attività già in partenza di dubbia riuscita ottengano risultati indesiderati per l’incapacità dei promotori e degli esecutori. Lo schema ipotizzato dall’UNAR, in effetti, che prevedeva la redazione di linee d’intervento e la loro realizzazione da
parte dei docenti stessi, è stato soppiantato dall’intervento delle stesse associazioni LGBT che hanno imposto nelle scuole persone di loro fiducia. Quanto alle iniziative provenienti da quelle associazioni, il frasario delle proposte progettuali fin qui
presentate, almeno stando ai documenti resi pubblici al riguardo, mostra, peraltro, una forte intromissione di approcci che non possono nemmeno essere definiti pienamente “scientifici”, ma piuttosto filosofici, come il decostruzionismo. A questo indirizzo di studi e ricerche si rifà il continuo uso di espressioni quali, appunto, “decostruire/decostruzione degli stereotipi”.
Anche in questo caso è lecito avanzare forti perplessità e critiche, poiché l’intromissione nella scuola di una filosofia, ed anzi l’impostazione delle attività formative stesse sulla base di una filosofia specifica, rappresenta una palese violazione del pluralismo culturale che dovrebbe improntare la scuola pubblica, per definizione laica, aperta al confronto tra le idee ed orientata allo sviluppo del senso critico da parte degli alunni. D’altra parte, il modo in cui, frequentemente, il decostruzionismo” è stato proposto ad insegnanti, genitori e alunni, come “scienza” rappresenta un vero e proprio abuso culturale e una grave violazione della verità scientifica stessa. Il decostruzionismo è un rilevantissimo indirizzo filosofico
che ha influenzato grandemente la critica letteraria ed anche ambiti parziali della sociologia, ma di certo non rappresenta compiutamente il sapere scientifico contemporaneo, né “copre” con la sua metodologia ed il suo orientamento di studi il vasto ambito del dibattito intorno alla stessa identità di genere. Anche in questo caso, la scelta culturale operata dalle amministrazioni pubbliche, o dai loro rappresentanti a livello centrale e locale, abusivamente o senza una precisa consapevolezza, è volta a realizzare, di fatto, attività didattica improntate ad una filosofia particolare, privilegiata rispetto ad
altre filosofie, senza, peraltro, una verifica competente della problematica relazione che può intercorrere tra quella filosofia e le scienze umane. Sarebbe preferibile un approccio autenticamente scientifico alla nozione di “stereotipo”, rispetto
alla quale il dibattito sociologico mostra l’estrema complessità del concetto e la necessità di una precisa definizione di esso nel caso e nell’ambito specifico al quale lo si vorrebbe applicare. Di tutto ciò non appare mai traccia nella pubblicistica riguardante i programmi proposti a scuola dalle organizzazioni LGBT.
Più specificamente, le caratterizzazioni del concetto di “stereotipo”, rispetto a cui si vorrebbe indirizzare l’agire concreto
degli insegnanti in classe, appaiono nel migliore dei casi lacunose, ma più spesso semplicistiche ed improvvisate, ad uso e consumo di iniziative che mirano a far penetrare nella scuola punti di vista particolari e, forse, anche interessati; non si capisce, ad esempio, quale rapporto vi sia tra il contrasto al bullismo e la diffusione tra gli studenti di istruzioni sull’uso di
preservativi e altri accorgimenti igienici nei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso. Queste informazioni non sono giustificate nemmeno all’insegna di una, sia pur vaga, “decostruzione degli stereotipi”.
Considerazioni analoghe possono essere fatte anche al riguardo della manipolazione del linguaggio ordinario compiuta in molte forme e circostanze negli ultimi due anni. La più eclatante, anche perché non si riferisce a progetti specifici di attività extracurricolari, ma ad un libro di testo ordinario per la scuola primaria, è la pagina sulla “famiglia” contenuta nel testo
L’acero rosso, nel quale si fa riferimento alla possibilità che una famiglia sia composta da “due mamme” o “due papà”, in palese contraddizione con la nozione ordinaria di famiglia e con l’ordinamento italiano. Il problema della penetrazione degli interessi LGBT nei libri di testo e nelle attività curricolari ordinarie è un problema estremamente grave; è in pericolo la stessa laicità della scuola pubblica, valore fondamentale della nostra Costituzione strenuamente difeso dalle espressioni della cultura
repubblicana, in tutte le sue connotazioni: cattolica, liberale, socialista, comunista, ecc., negli ultimi cinquant’anni.
Questa penetrazione passa attraverso un’imposizione agli stessi insegnanti di punti di vista e di pratiche che non sono da loro unanimemente condivisi, attribuendo al ruolo docente compiti e responsabilità che non gli spettano e senza la necessaria collaborazione delle famiglie, in molti casi tenute all’oscuro o addirittura ostacolate nella loro volontà di conoscere i contenuti delle attività in corso e di collaborare ad esse costruttivamente.
È una brutta scuola quella in cui si afferma cattedraticamente che le differenze tra i sessi “non sono un dato biologico innato, ma sono il frutto di un condizionamento socio-culturale messo in atto all’interno della famiglia, prima, e poi della scuola”; queste affermazioni banalizzano ed e quivocano la complessità degli studi in merito alle differenze sessuali e alle disparità sociali, contro le quali è condiviso da tutti l’impegno per eliminarle, ma senza ridurre tutto alle conseguenze
indesiderabili del “condizionamento”. In nome di questa schematizzazione abusiva sono stati costruiti strumenti didattici di ogni genere: esercitazioni, giochi di ruolo, attività esperienziali per riflettere sul genere sessuale, sui ruoli “tradizionali” uomo/donna, sugli stereotipi associati ai costrutti di maschio e femmina, ecc., come si legge esplicitamente in vari testi. Non occorre analizzarli singolarmente, ma piuttosto segnalare che tutti sono influenzati negativamente da questo distorto approccio abusivamente e semplicisticamente giustificato con riferimenti schematici al decostruzionismo.
È stata fatta una vera e propria violenza sui bambini e sugli adolescenti attraverso l’imposizione di parole d’ordine di fronte alle quali non è permesso alcun dialogo, né confronto. Bambini di dieci anni si ritrovano nel loro libro di testo l’affermazione perentoria: “Il legame che unisce la famiglia non è il sangue” (dal testo sopra già citato) e non possono fare altro che accettarla, anche se va contro ogni evidenza e contro il senso comune, perché sottrarre al “sangue” (brutta espressione,
spregiativa, di un legame che la morale e la legge riconoscono nell’interesse dello stesso minore innanzitutto) la sua importanza, significa destituire di fondamento la stessa cura genitoriale volta al bene del figlio e svuotare di significato lo stesso codice civile, laddove prescrive tassativamente l’obbligo dei genitori nei confronti dei figli e quello dei figli nei confronti dei genitori bisognosi (anche se in quest’ultimo caso senza sanzioni) a prescindere dall’intensità dei legami.
Non si può che condividere il seguito della frase sopra riportata, che “il cuore rende genitori e figli” , ma l’orientamento del cuore va a coloro che sono stati responsabili del venire al mondo di chi vuole bene e, reciprocamente, a coloro che sono il frutto di questo amore. Vale anche in questo caso quanto si può dire a proposito della “costruzione socio-culturale” dell’identità: la natura, il dato biologico non è tutto, ma non è nemmeno indifferente.
La possibile obiezione circa il legame adottivo non regge, in questo caso, perché si tratta di un istituto giuridico volto alla tutela del bene del minore abbandonato e vuole offrire a chi si trova in questa condizione precisamente quanto la natura gli avrebbe offerto, se le vicende dei genitori non lo avessero impedito. Natura e amore, nella famiglia, si intrecciano come il dato biologico e quello culturale nell’identità personale. Le parole d’ordine imposte agli insegnanti e agli alunni sono spesso contraddittorie: da un lato, si sostiene che la costruzione dell’identità sia un prodotto socio -culturale e che tale costruzione debba essere, di conseguenza, sviluppata nella garanzia della massima libertà, dall’altra si afferma che “trans si nasce”, come ha più volte detto un “testimonial” spesso assoldato dalle organizzazioni LGBT per diffondere nelle scuole la loro.
La contraddittorietà delle due affermazioni è evidente e non richiede lunghi ragionamenti per essere dimostrata: o l’identità si forma attraverso la storia dell’individuo nel contatto con un ambiente ed una cultura che lo orientano e rispetto al quale prende una posizione, o tutto è determinato alla nascita, anche l’orientamento di genere. La seconda affermazione, del resto, è palesemente contraddittoria in se stessa, dato che tutti riconoscono che, per esempio, l’orientamento non è
determinato dagli ormoni. In realtà, si può rimproverare alla gran parte delle iniziative messe in atto nelle scuole che il fine
della lotta contro il bullismo omofobico sia stato soltanto un pretesto per introdurre nell’ambito scolastico un punto di vista che giustificasse l’omosessualità in quanto tale, come le associazioni LGBT intendono da sempre. Nessuno vuole impedire che queste associazioni difendano il punto di vista delle persone che le animano e che vi aderiscono, ma la scuola non deve diventare il terreno di coltura delle loro propensioni. Si è assistito in questi due ultimi anni ad un vero e proprio tentativo di colonizzare la scuola, violandone la matrice laica e libertaria proprio attraverso l’imposizione di un pensiero di dubbia qualità, ma di fronte al quale non c’era spazio per la discussione. Sono stati riportati frequentemente casi di intolleranza da parte degli operatori dei progetti nei confronti di chi dissentiva dal loro punto di vista e che era tacciato da loro stessi come “omofobo”, violando profondamente l’autentica laicità della scuola.
Affermazioni contenute in progetti che sono stati anche finanziati generosamente con denaro pubblico appaiono quanto meno degne di ulteriori precisazioni e correzioni; per esempio, si è affermato che “i transessuali sono individui che sono riusciti a rendere coerente la propria anatomia con il genere con il quale si identificano” ; che “la funzione materna non è un dato naturale” e che “pensandola come tale, ha finito per giustificare l’esclusione o la maggiore difficoltà di accesso delle donne alla sfera pubblica”. Queste affermazioni potrebbero essere proposte come utili introduzioni ad un dibattito, e non come affermazioni apodittiche che impoveriscono un contesto di studi che vede un acceso confronto di posizioni tra ricercatori ed una ricchezza di analisi circostanziate che mettono in evidenza la varietà delle situazioni locali verificatesi in oltre un secolo di storia mondiale a proposito della condizione femminile e delle sue modificazioni nel corso del Novecento.
Occorre anche rilevare le evidenti schematizzazioni e banalizzazioni presenti nel linguaggio sopra riportato. Può essere “decostruito” anche lo stereotipo del transessuale nella forma in cui è descritto; in che cosa consisterebbe la sua “coerenza”? Tale coerenza renderebbe “incoerenti” le persone “transgender”, vale a dire quelle che non sono andate fino in fondo (e che non vogliono arrivare) a questa pretesa armonia tra “anatomia” e “genere”? Si parla anche di individui
“cisgender”; sarebbero anche loro “incoerenti”? La “coerenza transessuale” è un evidente stereotipo, come la maggior parte dei concetti usati dai sostenitori delle tesi LGBT, che spesso si dividono proprio a proposito della questione transessuale. Lo stesso può dirsi della “funzione” materna e della sua datità biologica; le affermazioni circa la sua esclusiva costruzione sociale rappresentano uno “stereotipo” della “cura materna” che può essere a sua volta oggetto di una “decostruzione”, dato che sostenerla implica un evidente rigetto della realtà a favore di una precisa scelta ideologica che vuole attribuire alle parole significati diversi da quelli consueti e universalmente in uso in tutte le lingue del mondo, nelle quali la “madre” è la persona che porta avanti per nove mesi la gravidanza di un essere umano che, a sua volta, e per il fatto di essere stato nove mesi nel grembo della madre, è detto “figlio”. Ugualmente si può osservare che altre affermazioni costituiscono la “grande narrazione” LGBT; ad esempio:“La concezione occidentale che prevede l’esistenza di due soli generi, sovrappone meccanicamente lo status anatomico con la percezione sociale” . Si dovrebbe chiarire in quale senso la “previsione” di due soli generi sia un tratto “occidentale”; sembra sottinteso qui uno stereotipo di “Occidente” che merita di essere decostruito. D’altra parte, anche la concezione LGBT dei generi sembra troppo condizionata dalla percezione sociale per non essere a sua volta stereotipata. Non è il caso di andare troppo oltre, ma è opportuno evidenziare come lo stesso decostruzionismo nel suo metodo possa essere applicato alle posizioni LGBT e, comunque, che tali posizioni si
spingano troppo oltre rispetto alla finalità del contrasto al bullismo omofobo, tentando di propagandare una visione del mondo di parte, a cui non si deve lasciare il compito di dirigere le menti degli studenti italiani. Ciò vale perché la scuola
pubblica non è luogo di indottrinamento, né compete ad essa il compito di privilegiare visioni del mondo particolari rispetto ad altre, ma semmai quello di proporle nella loro varietà, in modo imparziale e corretto, in modo che gli studenti stessi formi
noi loro orientamenti. Non soltanto in materia sessuale e/o affettiva, rispetto alla quale il compito della scuola è stato
sempre considerato secondario e limitato rispetto a quello prevalente della famiglia, ma rispetto a tutti gli aspetti dell’orientamento valoriale. “Favorire la libera espressione di ruoli di genere flessibili” , come alcuni progetti propongono,
implica di definire in cosa consisterebbe la “flessibilità”; manca una definizione precisa di questo costrutto in sé, e d’altra parte sembra che questo “favorire” si sia trasformato facilmente in una sorta di “favoritismo” basato sulle predilezioni dei promotori di tali progetti, che dovrebbero spiegare per quale motivo la “flessibilità” invocata sia preferibile ad una identificazione “fissa” con il genere; ciò anche ammettendo la validità del punto di vista LGBT. “Sostenere la
pluralità dei modelli familiari e dei ruoli sessuali” significa, dunque, privilegiare (sostenere, appunto) questa pluralità come un dato incontrovertibile, per “rendere elastica la rappresentazione dei ruoli di genere”; anche in questo caso si assume come
preferibile una“elasticità” non meglio definita che va ben al di là della stessa considerazione dell’orientamento sessuale
come “variante normale” della sessualità umana. In conclusione, da un punto di vista pedagogico si potrebbe dire che, se l’intenzione dei progetti sul gender apparsi nella scuole italiane nello scorso biennio è quella di “decostruire per costruire”
come recita uno slogan, questa costruzione non può fare a meno di “decostruire” la stessa “decostruzione” operata in questo modo sui ruoli sessuali, dato che i principali esponenti del decostruzionismo (Derrida, soprattutto) sostengono il carattere tendenzialmente “infinito” dell’interpretazione. Il punto è, tuttavia, che questa applicazione ad uso e consumo dei pur rispettabili obiettivi che si prefiggono le associazioni LGBT va ben al di là degli obiettivi stabiliti originariamente dall’UNAR
e richiede, comunque, un pluralismo di soggetti e di proposte culturali che restituisca alla scuola il suo carattere di luogo di discussione aperta e autenticamente partecipata, unica via valida, peraltro, per contrastare davvero le forme di prevaricazione e di violenza nelle relazioni interpersonali che possono presentarsi nell’età evolutiva.

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Documento Prof. Pesci in pdf – versione scaricabile

                                                                                              L’Ass.ne NON SI TOCCA LA FAMIGLIA

                                                                                                   Responsabile Equipe Scientifica

                                                                                                            Prof. Furio PESCI

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